Venezia e l’Oriente

 

Negli anni che precedono l’annessione all’Italia2, Venezia inizia a guardare verso Oriente: da lì sembrano provenire le più rosee promesse di sviluppo. Accanto all’imminente apertura del canale di Suez, prende forma una nuova rete di collegamenti marittimi e ferroviari che appare in grado di ridare, a quella che fu la Dominante, il ruolo di hubcommerciale tra ovest e est, tra nord e sud3..

Apparentemente secondari, altri episodi contribuiscono negli stessi anni a cucire tra di loro i diversi aspetti con cui, nel corso di questo decisivo ventennio, sembra prendere corpo una specie di “ritorno alle origini”. In questo clima di speranze, nel 1868, apre i battenti l’Istituto superiore per il Commercio (la futura Ca’ Foscari) il quale contribuisce a materializzare la speranza in una rinata vocazione mercantile della città4 . La scuola è fondata nel 1868 da Luigi Luzzatti che, nell’idearla, si ispirò al modello dell'Istituto superiore di commercio di Anversa, che dal 1853 affiancava all'insegnamento teorico

 
 

 


quello pratico: al suo interno, una parte consistente della sezione femminile è dedicata allo studio delle lingue orientali.

In quegli anni, per iniziativa di un gruppo di imprenditori veneziani, prende forma la prima “Carta idrografica del Mar Rosso”, preludio alla politica coloniale italiana indirizzata verso l’Eritrea e il Corno d’Africa.

Grazie soprattutto con l’apertura del canale di Suez, Venezia ha ora modo di riavvicinarsi all’Oriente, non solo in senso materiale ma anche in una prospettiva culturale. Nel 1857, nello stesso anno in cui Lesseps sottoscrive le azioni per la sua colossale impresa, il Consiglio comunale decide di realizzare un monumento dedicato a Marco Polo: si tratta di una statua in bronzo graziosamente offerta dalla famiglia imperiale, la cui realizzazione viene affidata alle capacità artistiche dello scultore Luigi Ferrari.

Sulla sua collocazione le idee non sono affatto chiare. Tra il maggio e il dicembre di quell’anno, prende corpo una curiosa discussione attorno al luogo più adatto da associare al ricordo del “grande viaggiatore veneziano”5, a partire dalle cosiddette “case di Marco Polo”, passando per i luoghi più rappresentativi della città”. Non se ne farà nulla ma nel 1866, con l’annessione all’Italia, l’autore de “Il Milione” darà il nome al Ginnasio-Liceo fino ad allora intitolato alla memoria di un santo: sul fronte delle realizzazioni tangibili, a lui sarà riservato soltanto un busto nel cosiddetto “pantheon veneto”6. Si trattava di una collezione storica di busti e medaglioni rappresentanti "uomini insigni nella politica, nelle armi, nella navigazione, nelle scienze, nelle lettere e

 

 
 

 


nelle arti, nati o vissuti lungamente nelle Province Venete dai tempi antichi fino al XVIII secolo".

Sospinto da rinati progetti commerciali, anche lo sguardo degli studiosi di monumenti tende a rivolgersi ad Oriente, rivolgendosi verso nuovi orizzonti e seguendo inedite direttrici sia artistiche che culturali. Già alla fine degli anni quaranta, quando prende le redini dell’Accademia di Belle Arti, Pietro Selvatico Estense dimostra grande interesse per un edificio fortemente connotato in senso orientalista: quel Fondaco dei Turchi che le autorità pubbliche avevano venduto a prezzi di saldo, soltanto pochi anni prima, nel 1838.

 

 

Selvatico e l’architettura veneziana

 

Selvatico ha un’idea chiara di architettura che egli cerca di leggere nel suo divenire storico: è il primo in Italia ad applicare la dialettica hegeliana a definizioni fino a quel momento rigidamente astratte come bizantino, romanico. Lo studioso padovano le colloca in una precisa sequenza stilistico-cronologica la quale, nel trapasso dall’architettura antica, a quella tardo-medievale si presenta in forma di tesi, antitesi e sintesi. Ciascuna fase si materializza in alcuni exempla che ne riassumono i caratteri in modo efficace.

Il marchese padovano applica questo telaio interpretativo ad un preciso contesto che è quello veneto-bizantino dell’Alto Adriatico; qui, tra le lagune di Grado e di Venezia, tra le mura di Parenzo e di Padova, è possibile ricostruire un arco temporale e stilistico che dall’età tardo-antica giunga fino alle soglie del detestato Rinascimento. Questi concetti sono compiutamente formulati nel volume Sulla architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai nostri giorni, che Selvatico dà alle stampe nel 1847.

Per raggiungere finalità strategiche e non casuali, nel processo di salvaguardia prima e di restauro, devono essere coinvolti gli episodi particolarmente significativi: di


ciascuno, anche a costo di forzature, saranno messi in luce gli aspetti esemplificativi di quella fase specifica architettonica. Non a caso, nello stesso contesto veneto-adriatico, si colloca anche la sua attività di conservatore la quale si salda perfettamente con quella di studioso; lascerà ad altri il compito di intervenire nella fase di restauro, ma secondo direttrici interpretative chiaramente definite..

E’ questo il caso del Fondaco dei Turchi. Riconsiderandone il valore monumentale, nel 1847, Selvatico lo definisce come l’unico esempio che si conservi a Venezia di una casa fondaco di età romanico-bizantina7. Nonostante la sua condizione semi-diruta, il complesso appare ai suoi occhi come un importante anello all’interno di quella concatenazione di cui abbiamo detto; costituisce inoltre un’eccezione nel panorama cittadino, ricco di edifici religiosi ma privo di esempi di carattere civile.

Visto nel suo carattere esemplare, il Fondaco dei Turchi rappresenterà al tempo stesso un caso di studio, un oggetto di tutela e di restauro secondo una coerente successione di atti che si colloca su di un lungo arco temporale, tra gli anni quaranta e gli anni settanta dell’Ottocento.

 
 

Nel 1840, il Comune aveva stabilito una prima, per quanto sommaria, forma di salvaguardia del solo prospetto sul Canal Grande autorizzandone, l’anno successivo, la demolizione delle parti retrostanti8. Descrivendolo nel suo volume del 18479, Selvatico ne aveva sottolineato il carattere eccezionale del fronte principale, animato da un insolito miscuglio di riferimenti orientaleggianti; in particolare, nel riferimento bizantino, egli vede il filtro rispetto ad elementi di più lontana provenienza, soprattutto araba. Lo studioso si soffermerà in particolare sulla presenza delle merlature che, a suo avviso, ricordano la moschea Tulun del Cairo. Più tardi, arriverà a riscontrarne:

 


“[…] l’impronta di una casa araba […][che] ricorda la maniera quale la adottarono i paesi signoreggiati dai Califfi Fatimiti d’Egitto che dominarono su quest’ultima regione dal 901 al 1171 […]”10

 

 

Arbitro delle questioni architettoniche di Venezia, Selvatico colloca il Fondaco dei Turchi tra i quattro principali monumenti della città insieme alla basilica di San Marco, al palazzo Ducale e alla chiesa di San Donato a Murano. In realtà, l’edificio ha avuto una vicenda ben più complessa rispetto a quello che il nome ci rivela. Eretto nel 1227 dalla famiglia Pesaro, il complesso è stato poi più volte rimaneggiato, ricostruito e ampliato11; prima è acquistato dalla Repubblica di Venezia nel 1381, poi ceduto a Nicolò V D'Este per la lealtà dimostrata nel corso della guerra di Chioggia. Per un breve periodo, nel corso del Cinquecento, ha anche ospitato la rappresentanza diplomatica dell’Impero spagnolo. Non prima del 1621, l’ex-palazzo Pesaro viene destinato ad assolvere il ruolo di enclave commerciale per la comunità dei mercanti turchi che, tra alterne vicende, lo utilizza in forma esclusiva fino al 1838, adibendolo nell’ultima fase a deposito di tabacco. In tutti i casi, sia nell’iconografia che nella topografia della città, il complesso aveva avuto un ruolo marginale nei suoi sei secoli di esistenza12.

A causa della sua storia complessa, molte erano le definizioni, tutte suggestive, che avrebbero potuto essere utilizzate: “palazzo dei duchi di Ferrara”, “sede degli ambasciatori di Spagna”. Ognuna avrebbe potuto richiamare alla mente diversi scenari architettonici e raccordarsi a fasi significative nella storia della Serenissima. Tra tutte, l’espressione “Fondaco dei Turchi” possedeva un forte potere evocativo soprattutto in

 
 

 


una Venezia che, come abbiamo visto, cercava di riproiettarsi verso il Mediterraneo orientale.

In realtà, quella definizione non era riferibile che alla fase più recente della sua storia pluri-secolare e perciò non corrispondeva alla configurazione architettonica che Selvatico intendeva restituire all’edificio ormai in rovina. Ciò nonostante, tra tutte quelle possibili, viene scelta la “via ottomana”, anche se risulta cronologicamente sfalsata rispetto alla facies architettonica che si intende “restituire” all’edificio. In altre parole, la fase in cui fu occupato dai mercanti turchi non corrispondeva affatto agli elementi che lo caratterizzano in senso orientale e, insieme, al carattere di “edilizia civile delle origini” più volte citato da Selvatico; questi e quello appartengono semmai al periodo iniziale, quando si chiamava palazzo Pesaro.

Per compiere questo slittamento tra storia e forma architettonica, occorreva che i due aspetti fossero trattati in modo separato e fossero collocato su due piani paralleli ma distinti. Questo è lo schema utilizzato da Agostino Sagredo e da Federico Berchet quando, nel 1860, pubblicano la prima monografia storico-artistica sul Fondaco dei Turchi13. Per l’occasione vengono messi insieme due diversi elaborati: da un lato la Memoria presentata dall’ingegnere comunale Federico Berchet nel dicembre 185814, ove sono descritte le linee guida di un possibile progetto di ripristino, e dall’altro la conferenza tenuta a suo tempo dall’erudito Sagredo presso l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti15. Se quest’ultimo vuole ricostruire la complessa vicenda storica, al

 
 

 


primo preme trovare le pezze d’appoggio alla sua ipotesi architettonica: Sagredo presenta la successione di eventi e di proprietari che si sono alternati nell’arco di sei secoli, mentre Berchet si sofferma unicamente sulla facies “arabo-bizantina” tralasciando tutto quello che è avvenuto in seguito.

Seguendo la traccia interpretativa lasciata da Selvatico, egli gli assegna il ruolo di testimone di una fase di intensi scambi con il vicino Oriente. A suo avviso, l’architettura del Fondaco dei Turchi si basa su di una fusione di modelli orientali perché, ” […] c’è del bizantino, dell’antico e dell’arabo”16.

Nel constatarne la condizione di abbandono, scrive Berchet nell’introduzione:

 

“Tranne la fronte, null’altro più rimane del magnifico edificio conosciuto con il nome di Fondaco dei Turchi […] ; e la fronte è così guasta, anzi pericolante da mettere profonda tristezza in chi la guarda perché accenna a città caduta nella massima desolazione”17.

Nonostante le attuali condizioni di abbandono, l’edificio resta un esempio unico nel panorama dell’edilizia civile veneziana, come già era stato scritto nella Guida del 1847. Ma Berchet va più in là della funzione testimoniale e del carattere originale, sostenendo che. pochi altri edifici in Italia possono dirsi altrettanto importanti per il loro valore storico-artistico. Per comprendere questa roboante affermazione dobbiamo rifarci ad una serie di giudizi e di definizioni che Selvatico aveva a suo tempo formulato con autorevolezza scientifica circa il ruolo che il Fondaco dei Turchi avrebbe potuto svolgere nella sequenza storico-architettonica non soltanto di Venezia.

Nelle parole di Berchet, l’analisi del manufatto non rappresenta che il punto di partenza per definire le linee di un possibile progetto che riprenda le coordinate già definite dall’autore della Sulla architettura e sulla scultura in Venezia: anche se non ve n’è più traccia, occorre egualmente ricostruire quei due corpi laterali che rendono

 

 

 


quell’edificio assimilabile alle case-torri bizantine. Per legittimare la sua scelta chiama a sostegno la Pianta prospettica di De Barbari (1500) e la descrizione tardo-cinquecentesca di Francesco Sansovino. Insiste poi sul rifacimento della merlatura arabeggiante ed auspica che tutto il fronte sul Canal Grande ritorni ad essere coperto con lastre di marmo.

 

 

Il problema del nuovo museo civico

 

A partire da queste corpose premesse, nel corso degli anni cinquanta, è notevolmente cresciuta l’attenzione nei confronti di ciò che, nel frattempo, è stato ridotto a poco più di un rudere. A dare man forte alle ragioni di chi vuole dare il via ad una campagna di ripristino, c’è un nuovo elemento che viene ad aggiungersi alla lunga sequenza di motivazioni ideologiche ed artistiche: la necessità di ampliare la sede delle collezioni civiche, collocate dal 1830 nel vicino palazzo Correr18. In quel caso, la contemporanea donazione del palazzo aveva consentito al Municipio di ospitare la quadreria e di creare, in modo quasi automatico, una sede per il nascente museo locale: nel frattempo era stata definitivamente accantonata l’ipotesi di adibire Ca’ Foscari a questo uso.

Una serie di altri lasciti, ed in particolare la collezione Zoppetti, venivano però ad aggiungersi nel corso degli anni quaranta e cinquanta19; questa volta, a differenza di quanto era avvenuto con il conte Teodoro Correr, l’atto di cessione riguardava soltanto i beni mobili. Nasce allora l’idea di creare una specie di continuummuseale che comprenda il palazzo Correr e il ricostruito Fondaco dei Turchi: l’idea si rivela risolutiva per procedere ad un passo molto oneroso, quale l’acquisto e il ripristino del diruto edificio.

 

 
 

 


Sappiamo quale peso abbia avuto, nel definire l’identità urbana, la scelta della sede più adatta per il museo civico; specialmente nel periodo di cui stiamo parlando, ovvero alla metà dell’Ottocento, quando la città italiana va interrogandosi sulle proprie origini e sul proprio passato20. Messa ormai in soffitta la mitologia liviana sui padri fondatori, l’erudizione storiografica contribuisce a ricostruire genealogie, atti costitutivi, eventi straordinari. Per lo storico e per l’architetto, anche la creazione del nuovo museo acquista un valore fondativo come ben sanno Sagredo e Berchet che non hanno lavorato invano. Nel caso specifico, Venezia trova nella ricostruzione di un monumento pseudo-orientale la sede del nuovo museo e, contemporaneamente, uno dei pilastri della sua ritrovata identità.

Con l’aiuto di privati, il Municipio acquista il Fondaco dei Turchi nel maggio del 185921, segnando così una svolta nella lunga e travagliata storia dell’edificio. Dell’opera di radicale rifacimento che ne seguirà, non daremo conto se non in modo sommario rimandando, per una più dettagliata descrizione, ad una serie di contributi scritti in tempi diversi22.

Con il convinto sostegno dell’autorità centrale, giungono decisioni che porteranno all’avvio ufficiale dei lavori nel giugno 1863: l’affidamento all’impresa esecutrice è del maggio 1861, mentre all’inizio del 1862 viene redatto il progetto esecutivo. Ad allungare i tempi dello schema definitivo vi è anche l’idea di un ipotetico ampliamento da svilupparsi in diverse direzioni, come vedremo tra poco.

 

 
 

 


Più che di un edificio vero e proprio, si trattava infatti di ridare vita ad una “facciata” sul Canal Grande, al di là della quale non vi era che un volume di consistenza minima: si trattava di restaurare le due gallerie sovrapposte e di costruire ex-novo le piccole torri poste alle due estremità. Il tutto poteva offrire un bel colpo d’occhio, ma non garantiva che una modesta superficie utilizzabile. Nell’ipotesi salvifica di allestirvi parte del Museo civico soltanto pochi pezzi avrebbero potuto trovarvi posto: alla piccola e insufficiente sede di palazzo Correr andava ad aggiungersene una seconda, altrettanto inadeguata. Si fanno strada due possibili ipotesi di espansione planimetrica: una alle spalle del Fondaco, un’altra lungo il Canal Grande sul sedime dello stesso palazzo Correr e dei suoi annessi.

I lavori di ricostruzione procedono molto lentamente: tra il 1863 e il 1866, vengono licenziati le prime opere di consolidamento e di eliminazione delle superfetazioni. Il grosso dell’intervento si concentrerà però nel triennio compreso tra il marzo 1866 e il maggio 1869; dopo uno lungo contenzioso con il Comune, un nuovo contratto è firmato nel febbraio 1866. Gli assegnatari sono in realtà due: l’impresario Spira e il lapicida Cadel, il quale avrà una parte preponderante nella conduzione dei lavori, così come testimoniato dai documenti; questo dimostra che si è trattato soprattutto di rivestire in pietra una lunga facciata parallela al Canal Grande.

Si delinea comunque un’opera molto costosa anche se, come abbiamo visto, si è trattato di ridare vita a poco più di una doppia galleria coperta. Dopo l’inaugurazione, avvenuta nel giugno 1869, sopravviene una fase di stallo dovuta alla presa d’atto che la ridotta superficie non permette di insediarvi nuove destinazioni a cominciare dall’ipotesi di adibirlo a sede principale del Museo civico.

Per offrire una maggiore dotazione di spazi, Federico Berchet lancia una proposta dirompente: suggerisce di costruire una secondo edificio/galleria da lui disegnato in sequenza con il Fondaco a cui è raccordata da un sovrappasso pensile. Prendendo il posto del palazzo Correr e di altri volumi annessi, il nuovo edificio riprodurrebbe gli stessi motivi del prospetto preesistente: le due polifore sovrapposte al centro e la sequenza di


tre aperture, simmetricamente disposte alle estremità23. Nel nuovo fronte mancherebbero però le due torrette laterali e la merlatura arabeggiante, anche per la necessità di allinearsi con l’altezza di palazzo Correr. Sommata al Fondaco e al raccordo proposta, questa addizione avrebbe dato vita ad un fronte di quasi cento metri disposto lungo il Canal Grande. In questo caso siamo di fronte ad un’ulteriore forzatura, dove le ragioni ideologiche e culturali si sommano a calcoli sulla reale utilità dell’opera.

Sia il Fondaco dei Turchi sia il suo doppio, proposto da Berchet, sono stati recentemente oggetto di una ricostruzione in tre dimensioni realizzata da un gruppo di studenti del Dipartimento di Ingegneria civile di Padova24: l’esistenza di disegni quotati ha permesso, al team guidato da Andrea Giordano, di materializzare visivamente un proposta che ai nostri occhi oggi appare in tutto il suo carattere abnorme. Non così la pensavano, coloro che attorno alo 1870 discussero di questo progetto come di una possibile e praticabile opzione per dare finalmente una sede adeguata al Museo Civico: evidentemente, nessuna reazione di ripulsa scattava in loro davanti a quei cento metri di fronte disposti lungo il Canal Grande. Ed è questa la prova di un radicale mutamento di sensibilità avvenuto negli ultimi centocinquanta anni.

 

 

Il completamento del Fondaco

 

Due fattori contribuiscono alla bocciatura di questa radicale proposta. In primis

pesa il progressivo allontanamento di Federico Berchet che l’aveva redatta e sostenuta

 

 
 

 


con convinzione; in questo compito egli lascerà il posto all’ingegnere-capo dell’Ufficio tecnico municipale, Giuseppe Bianco che assumerà la direzione dei lavori mentre in seguito Enrico Trevisanato ne firmerà il progetto esecutivo. Nel giro di pochi anni Berchet assumerà la carica di responsabile dell’Ufficio regionale d’arte (ovvero l’embrione della futura Sovrintendenza ai Monumenti9, quando questa sarà istituita alla metà degli anni ottanta dell’Ottocento.

Ma soprattutto, nel corso dell’anno 1871, sopravviene un dato nuovo che permette alla situazione di sbloccarsi: la ventilata disponibilità dei magazzini retrostanti che il Comune si precipita ad acquistare nel settembre di quello stesso anno25. Questo consentirà di abbandonare definitivamente l’ipotesi di una crescita frontale lungo il Canal Grande, per percorrere invece la via di un’espansione in profondità, nella parte interna dell’isolato. Prende così forma quell’assetto quadrilatero che il complesso oggi ha, a dispetto di un’assai differente configurazione iniziale.

Nel frattempo si procede alla liquidazione dei lavori edilizi e, in quell’occasione, l’assistente al cantiere, Annibale Marini completa un rilievo eccezionalmente accurato della fabbrica così come trasformata nel corso degli anni sessanta: a questa serie, e a non al progetto di Berchet, si riferiscono molte delle tavole pubblicate poi nei saggi e negli articoli relativi al rifacimento del Fondaco26.

Per quanto riguarda le due nuove ali, sappiamo di un primo disegno presentato dall’Ufficio tecnico, poi di un secondo schema elaborato da Berchet ma bocciato dalla

 

 

 

 

 


Commissione comunale, ed infine di un terzo progetto finalmente licenziato nel gennaio 187327: un’ultima serie di tavole, redatte da Trevisanato, è approvata nel mese di aprile.

Al termine di una lunga serie di ripensamenti e di correzioni l’artefice del precedente ripristino non riconoscerà la paternità di questo ampliamento che sarà realizzato nell’arco di pochi anni; questo permetterà per la prima volta, tra il 1884 e il 1887, di insediare le collezioni civiche in un unico contenitore. Infatti non si tratta della sola quadreria, risultante da una lunga serie di donazioni, ma anche della gipsoteca, della biblioteca, delle collezioni speciali (bronzi, maioliche, armi, vetri strumenti musicali).

A questo si aggiungano le cosiddette “memorie nazionali” (cimeli patriottici in buona parte legati alla rivoluzione del 1848 e alla figura di Manin): molte di queste provengono dal vicino palazzo Correr, che continuerà a dare il nome all’insieme delle raccolte civiche e che, fino alla sua definitiva chiusura, funzionerà da Museo del Risorgimento. Il trasferimento sarà lento e graduale, lungo un cammino disseminato da ripensamenti e da progetti contradditori per musei tematici; un primo consistente passaggio si è verificato nel 1884 quando le collezioni di dipinti iniziano ad essere riunite nella nuova sede del Fondaco.

Nel corso del 1886 si dà il via alla realizzazione della seconda ala dopo che la mancanza di fondi aveva impedito di completare la nuova sede, secondo il progetto di ampliamento approvato tredici anni prima28. Nel 1887, l’opera può dirsi finalmente ultimata, ma la lunga vicenda non si conclude qui: venticinque anni dopo, l’accorpamento delle collezioni, il Museo civico emigrerà in piazza San Marco, nell’ala delle Procuratie Nuove, dove si trova tutt’ora. Il Fondaco dei Turchi resteranno soltanto le parti relative alla storia naturale e una serie di raccolte tematiche.

 
 

 


Ancor prima che le raccolte siano trasferite nella nuova sede del Museo civico, è tramontata l’idea di farne il caposaldo di una ritrovata identità cittadina. Anche a costo di forzature, Berchet l’aveva a lungo accarezzata: non en solitaire,ma con l’autorevole avvallo storiografico di Pietro Selvatico. Svuotato dei suoi forti connotati ideologici, il Fondaco dei Turchi resta ormai come relitto di una fase che è ormai alle spalle: ora Venezia non deve più trovare legittimazioni orientaliste è ora stabilmente inserita in una rete di relazioni con il Levante mediterraneo. La ripresa dei traffici e del commercio le permettono ora di guardare al suo passato con occhio meno nostalgico.

L’idea sopravvive in un quadro presentato alla Biennale del 1911: così come dipinto da Mario De Maria, il Fondaco dei Turchiè popolato da odalische, da giannizzeri, da mercanti in turbante e da tutti gli stereotipi che accompagnano quel genere di ambientazione. E’ il riflesso di una rêverie orientalista il quale non ha più nulla da spartire con la missione educatrice a suo tempo assegnatogli da Selvatico e da Berchet. All’occhio freddo dell’analista e del classificatore si è sostituito lo sguardo languido di un pittore di maniera.

Oltre il mondo dei sogni, si prospetterà un triste destino per il Fondaco dei Turchi che diventa sede periferica del Museo civica, destinata ad accogliere collezioni speciali (Arte cinese, Storia naturale); nel frattempo, a partire dagli anni venti, il nuovo Museo Correr è andato collocandosi nella platea marciana, trovando così la sua piena e definitiva consacrazione identitaria proprio a contatto con l’epicentro della storia veneziana. Anche nella letteratura, al monumento orientaleggiante spetterà una posizione di seconda fila, per non dire di peggio: nelle guide, come quella di Lorenzetti29, troviamo descrizioni del Fondaco che non superano le quattro righe.

 
 

Per gli esperti di restauri architettonici, quello che per Selvatico avrebbe dovuto diventare il “quarto monumento cittadino” è invece letto come espressione compiuta di una serie di interventi arbitrari: nei corsi di Restauro, quello che sembrava il principale

 


esempio di edilizia civile veneziana sarà additato alle future generazioni di allievi come un vero e proprio modello da non imitare30.

A rimarcare la differenza tra la sensibilità di ieri e di oggi vi è il primo progetto di Berchet per una palazzata di quasi cento metri, inclusiva sia del “vecchio” che del “nuovo” Fondaco dei Turchi. Quello che allora sembrava plausibile o addirittura legittimo oggi apparirebbe come un’irrimediabile offesa al Canal Grande e a Venezia. Nella sua facciata marmorea, infatti, nessuno ora riconosce più quel decisivo tassello della storia e dell’identità veneziane che Selvatico aveva descritto negli anni quaranta e che Berchet aveva cercato di ricostruire negli anni sessanta dell’Ottocento.

 

 

 

 

 

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